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Lo smart working, da non confondere con il remote working sperimentato durante la pandemia, si basa sulla possibilità da parte del lavoratore di scegliere dove e quando lavorare, in assenza di forme rigide di controllo.
Una soluzione che, in assenza di vincoli spaziali, potrebbe convivere con il south working e con la decisione di molti lavoratori di spostarsi dalle città verso zone d’Italia considerate periferiche (paesi di montagna, campagne, piccoli borghi ecc.) e il sud, modificando la geografia del lavoro.
Prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria, tale flessibilità è stata un fenomeno episodico che ha coinvolto poche aziende e pochi lavoratori. Per applicare lo smart working nel modo giusto ci vuole però organizzazione ed un cambiamento di mentalità e non ci si può limitare a farsi trascinare dalla moda del momento.
L’adozione del remote working e (da non confondere con lo smart working)
La situazione di emergenza sanitaria ha imposto l’adozione forzata del lavoro da remoto o remote working. Questa si è resa necessaria in maniera estensiva per permettere alla aziende di mantenere a pieno regime la propria attività e garantire il lavoro ai propri dipendenti.
Ciò ha richiesto un grande sforzo tecnologico, organizzativo e manageriale per implementare in tempi velocissimi il remote working (che è coinciso, nella maggior parte dei casi, con l’home working) e subito dopo per la gestione dei lavoratori che si sono trovati a svolgere il proprio lavoro a distanza, spesso per la prima volta.
È importante ribadire che il remote working estensivo e forzato sperimentato durante la pandemia non è il lavoro agile o smart working. Per esempio, secondo la legge 81/2017 il lavoro agile è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, mediante accordo tra le parti, che si svolge senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, e che presuppone l’uso di strumenti tecnologici per il suo svolgimento.
Cos’è lo smart working
Si tratta di una modalità che si fonda sia sulla dimensione spaziale («da ogni luogo»), sia su quella temporale («quando vuoi»). Questa può integrarsi con il lavoro tradizionale e/o sostituirsi a esso al fine di rispondere a esigenze di equilibro tra lavoro-tempo libero e si fonda sull’idea che la presenza in ufficio e/o lavorare durante determinati orari non sia così fondamentale.
Lo smart working, quindi, per essere tale deve prevedere:
La cultura dello smart working, si basa dunque sulla possibilità di scegliere dove e quando lavorare, con responsabilità e nel rispetto sia delle esigenze dell’organizzazione sia del lavoratore.
Può prevedere sia l’alternanza tra i tempi e i luoghi, che la possibilità di definire singolarmente come organizzare la propria prestazione.
Parola d’ordine: flessibilità
Uno dei pilastri dello smart working è la flessibilità nello spazio. Questo ha portato all’attenzione il fatto che un lavoratore possa decidere di lavorare dove preferisce (per esempio, da uno spazio di coworking), anche in un luogo lontano da quello dove ha sede l’organizzazione.
In particolare, si è iniziato a parlare, in Italia, di south working.
Durante la pandemia un numero non trascurabile di lavoratori in remote working più o meno obbligato ha deciso di trasferirsi temporaneamente nelle regioni del Sud Italia, vicino quindi alla propria famiglia di origine. Il south working sarebbe però possibile se e solo se le organizzazioni lasciassero ampia libertà e autonomia ai propri lavoratori nella scelta di dove e quando lavorare.
Un modello ibrido che imponga la presenza alcuni giorni alla settimana e/o al mese (limitando quindi la libertà e l’autonomia del lavoratore) invece, renderebbe il south working più complesso da organizzare e gestire.
È forse però sbagliato parlare solo di south working, perché la scelta dei lavoratori può riguardare altri luoghi considerati periferici: i paesi di montagna o con un limitato accesso ai servizi, le campagne ecc. Ossia può riguardare tutto ciò che è stato considerato marginale fino a poco tempo fa.
Una vera e propria minaccia per le città globali che hanno fatto della capacità di attrarre questi lavoratori uno dei fattori del loro successo, ma potenzialmente un’opportunità per tutte le altre città e/o zone che possono migliorare il loro capitale sociale.
Ci troviamo, quindi, in un momento di possibile cambiamento. Ad oggi, tuttavia, non sappiamo ancora se e quanto lo smart working sarà adottato dopo la fine della pandemia, con quale forma e dove i lavoratori sceglieranno di vivere e lavorare.
E tu, dove preferiresti lavorare?
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